La problematica del possibile cumulo delle varie tipologie di interessi e competenze ai fini della rilevabilità del tasso usurario è un argomento che da qualche mese infiamma le contrapposte fazioni dei filobancari, da una parte, e dei formalisti dall’altra.
Le tinte della vicenda sono le solite: nel momento in cui la giurisprudenza di legittimità applica la legge (cfr. Cass. Civ. n. 350/2013) e si intravede un’apertura favorevole ai clienti delle banche, immediatamente le note associazioni di categoria del credito, la dottrina juke-box, Bankitalia (cfr. Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 2683 del 19 dicembre 2011 – Pres. Esposito – Est. Chindemi) ed altri interessi si mobilitano per salvare il gran malato: il sistema bancario italiano.
Ebbene, dopo la ventennale querelle sull’anatocismo, questa volta l’opera è quella di cercare di continuare a disapplicare la scomoda legge sull’usura, come ridisegnata dal legislatore del 1996.
E’ bene richiamare la chiarissima normativa che si cerca di eludere.
In particolare, per l’art. 644, comma 1, c.p.:
“Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari [c.c. 1448, 1815], è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000”.
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